Il lavoro e la cultura, Luigi Berlinguer
Bruno Trentin non si fermava mai alla superficie delle cose né si accontentava di uno slogan. Frugava sempre curioso nel profondo per trovare spiegazioni di cui era avidissimo. E privilegiava i processi reali, non le facciate ideologiche. Inflessibile sui valori, rifiutava le formule: era questa la sua forza intellettuale, e forse era qui la chiave di quello che oggi Alfredo Reichlin chiama il suo riformismo.
Io vorrei riprendere una tematica a cui Bruno ha dato tanto, che è ancora di bruciante attualità: la cultura del lavoro, e cioè la natura nuova, la sostanza post-fordista, post-taylorista del lavoro ed il suo forte nesso con la cultura. Il lavoro nella società della conoscenza.
Negli anni ’70, in pieno dibattito sull’automazione, anche in seguito alla grande riforma dell’obbligo scolastico a 14 anni, ricordiamo quel singolare movimento delle 150 ore, e ripensiamo alla proiezione che se ebbe addirittura sui contratti operai. La Cgil ed il Pci proposero con forza non un problema di banale «formazione» o «aggiornamento», ma il nesso fra cultura e condizione operaia, la viva novità del «diritto operaio al sapere», si direbbe oggi. Bruno Trentin ne fu fra gli inventori, certo fra i protagonisti, entro un filone di pensiero che gli è stato costante, costitutivo della sua figura di politico e intellettuale.
C’era dietro tutta una storia ed una ricerca per le torsioni nuove, non solo socio-antropologiche di importazione americana, circa la natura stessa che era venuto assumendo il lavoro, intrinsecamente collegata alla definizione dello spessore umano e professionale della figura del lavoratore.
E per cultura, in quella battaglia di allora, non si intendeva solo elargizione di nozioni, ma un processo di apprendimento ed arricchimento che fosse sia un dato costitutivo della personalità del lavoratore, sia come configurazione della stessa attività lavorativa, come componente essenziale del profilo professionale. Non scissione «idealistica» ma fusione fra fare e sapere, fra conoscenza e protagonismo sociale. Bruno vedeva l’operaio, il lavoratore, come «portatore di un’esigenza di libertà e di conoscenza», vera base della sua emancipazione dall’antico servaggio del lavoro.
Le 150 ore non dovevano costituire una mera redistribuzione della cultura esistente, ma l’affermarsi della cultura del lavoro: un cultura di base con dimensione di massa, estranea alla storia del capitalismo italiano straccione e del neo idealismo classista insediato nella sua scuola. L’indirizzo fondante delle battaglie da allora - e Bruno era al centro di esse - è quello di intrecciare sapere di base col lavoro, scienza/tecnologia con la professione. Una concezione nuova della cultura e dello stesso lavoro. Un impianto concettuale fra Marx e Weber, il grande pensiero filosofico e sociologico a cavallo fra ’800 e ’900, seppellito dal crocio-gentilismo educativo oggi così duro a morire.
Sta qui dentro la consapevolezza di quanto fosse importante assicurare la presenza dei tecnici intermedi, del loro ruolo culturale-sociale e produttivo allora assunto - insieme alla emancipazione operaia in corso - nel contribuire al miracolo economico. Quel mondo bollato come «tecnica» dal pensiero idealistico, considerato sprezzantemente fuori dalla cultura, destinato ai poveri di spirito.
Da quell’impianto politico deriva invece l’attenzione ed il riscatto della tecnologia, come base evoluta del lavoro, la grande importanza di un suo uso creativo, che non solo emancipa, ma sta alla base delle effettive opportunità di produrre vera innovazione come fattore creativo ed espansivo dell’attività produttiva, e quindi del lavoro che la sostanzia. La cultura, la diffusa creatività tecnologica, l’inventiva protagonista dei processi, che diviene così componente del tessuto sia sociale che economico, costituisce l’anima dell’innovazione, e si basa su ciò che favorisce la realizzazione della personalità dell’operatore, ieri del lavoratore. Specie oggi che non tiene più l’antica divisione del lavoro: quella che distingue colui che definisce il bisogno, la domanda (colui che comanda e dirige) da chi soddisfa quel bisogno «offrendo» ed eseguendo lavoro. Oggi anche chi esegue e soddisfa - se colto e tecnologicamente creativo - innova e costruisce, è soggetto protagonista. Ma per questo è necessaria una vera cultura nel lavoro ed un lavoro culturalmente supportato e strutturato. C’entra tutto questo con l’istruzione? Chiedetelo ai tardo gentiliani che pontificano sui media ed in politica! Scusatemi, ma non se ne può più.
La biografia intellettuale e politica di Bruno Trentin è tutta dentro questa prospettiva di ricerca continua. Il sapere non è un abitino, un insieme di citazioni, o di soprammobili intellettuali, un dato esterno, scisso, appiccicato, un di più, un ornamento - che poi produce l’élitismo narcisista ed edonista dell’intellighentia. Il sapere è invece strutturale alla persona, ricchezza metabolizzata e digerita, assimilata, sangue vero della personalità di chi lavora, dello suo stesso lavorare, della sua professione. Ma questo è possibile se l’impianto educativo ed il suo modello culturale non si basano sulla scissione fra cultura e lavoro. E quindi se sottopongono le loro ipotesi teoriche, il loro necessario apparato di astrazioni concettuali ad una costante verifica del reale, della sua «utilità» sociale, non rifiutano di fare i conti con i fatti: ancora il nesso fra cultura e professione. Se si procede ad una costante ricomposizione del sapere, a ricondurre gli inevitabili specialismi all’unità del sapere di base ed alla sua contaminazione sociale.
È questa la priorità del sapere nella società e nell’economia della conoscenza. Nel corso del penultimo congresso dei Ds Andrea Ranieri ed io presentammo con Bruno Trentin un documento trasversale alle diverse mozioni proprio sul tema del sapere e della sua priorità politica: è utile ricordarlo perché esso resta un viatico per la nuova politica progressista italiana ed il suo nascituro Partito Democratico, che senza una cultura del lavoro e la priorità politica del sapere rischia di non andare lontano. Impariamo anche oggi da Bruno Trentin.
Luigi Berlinguer