Maestro (incompreso) di concretezza, Andrea Ranieri
Bruno Trentin è stato, negli ultimi anni della sua vita, un uomo solo. Mi perdoneranno i suo amici, quelli che con lui hanno condiviso in questi anni idee e battaglie politiche, la brutalità di questa affermazione. Ma sono certo che la capiranno più di tutti gli altri.
E’ stato solo rispetto alle modalità più correnti della politica, solo rispetto al dibattito mediatico, solo rispetto ai luoghi dove si decideva.
Mi chiedo se questa sua solitudine dipendesse dal fatto che le sue idee erano invecchiate, dal suo carattere “antico”, o se la sua solitudine non fosse essa stessa un segnale del distaccarsi del dibattito politico dai problemi reali del Paese e da quelli delle persone. Dilemma non da poco, specie quando si costruisce un nuovo soggetto che alla crisi della politica vorrebbe dare una risposta.
Bruno accolse con molto entusiasmo la proposta di Piero Fassino di presiedere la Commissione per il programma dei DS. Ma si trovò progressivamente spiazzato, nella sua ostinazione a privilegiare il merito e i contenuti, da un dibattito politico che assumeva ogni tema per la vicinanza o la distanza con le posizioni di questo o quel leader, per il suo essere etichettabile di “destra” o di “sinistra”.
Bruno Ugolini ha riportato nel suo lucido e appassionato ricordo di Bruno Trentin, uscito sull’Unità il giorno dopo la sua morte, un vecchio articolo di Giorgio Bocca (“Il Giorno”, 1975). “Quando parla uno come Trentin non ha senso chiedersi se appartenga alla destra o alla sinistra del Partito Comunista, perché quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni, dalla pigrizia”.
La solitudine degli ultimi anni della sua vita misura la crescita dei luoghi comuni, delle pigrizie nel dibattito politico del nostro Paese.
E insieme il crescere del provincialismo, nella difficoltà a far diventare davvero tema centrale l’Europa, quella Europa della conoscenza, l’Europa del suo amico Jacques Delors, quella capace di crescere irrobustendo la coesione sociale, della conoscenza come leva per la competitività e risorsa decisiva per la libertà dei lavoratori e delle persone.
Ma ancor più lo feriva la tendenza a rendere vaghi gli obiettivi e gli impegni programmatici, a superare con giri di frase contraddizioni e problemi reali, secondo quella pratica che predilige programmi flessibili e verbosi, da adeguare di volta in volta agli schieramenti da costruire. Quanto oggi il centro sinistra paghi per questo è sotto gli occhi di tutti.
Questa sua intransigenza sui contenuti e sul programma gli costò il silenzio dei media, alla ricerca, anche durante i momenti di elaborazione programmatica, di dichiarazioni “casual” sulle emergenze quotidiane. Di veline spendibili senza sforzo, all’interno dell’agenda che spesso i media stessi imponevano alla politica. E trovando sempre politici disponibili ad accontentarli. Trentin non ha mai prodotto in tutta la sua vita una velina. Invitava i giornalisti ad ascoltare, a capire, a interpretare e a raccontare. Non ha mai anticipato con una dichiarazione, meno che mai da segretario generale della CGIL, quello che avrebbe detto nelle conclusioni, e diffidava chi collaborava con lui di rendere pubbliche proprie posizioni personali durante un percorso di elaborazione collettiva. L’unica su cui può fondarsi un progetto riformista concreto e praticabile.
Passò per questo – lui che non ha mai detto una parola che non fosse dentro la lettura dei fatti e delle dinamiche sociali – per “astratto”, lontano dalla concretezza del confronto politico. La “concretezza” ricercata dai media è diventata sempre più spesso il gioco delle parole vuote e degli specchi autoriflettenti . Decidere di rassegnarsi o provare a invertire questa deriva è una partita decisiva per il recupero della serietà della politica e del modo in cui viene raccontata.
Sen. Andrea Ranieri, Partito Democratico