Il welfare dei diritti
Pubblichiamo qui un testo di Bruno Trentin riproposto ai lettori dalla Rivista delle Politiche Social e introdotto da Michele Magno. Esso esemplifica le proposte di riforma dello Stato sociale avanzate da Trentin in qualità di responsabile dell’Ufficio di Programma della Cgil e discusse nella conferenza nazionale della stessa confederazione nel 1995.
L’introduzione richiama il più ampio contesto culturale e valoriale del pensiero di Trentin. L’idea centrale è quella di una welfare society, in cui alla logica del risarcimento si sostituisca una logica di promozione dei diritti di cittadinanza. Viene esaminata,in particolare, la crisi del principio assicurativo,che richiede un concorso trasparente della fiscalità generale al finanziamento della sicurezza sociale. I suoi valori di solidarietà vanno fondati non solo nel campo della distribuzione del reddito, ma soprattutto nell’offerta di beni e servizi reali alle persone. Esplicito, infine, è l’invito al sindacato affinché guardi in termini sistematici alla riforma del welfare, evitando di identificarla quasi esclusivamente con la questione delle pensioni.
INTRODUZIONE di Michele Magno
Sfidato dalle trasformazioni della demografia, della famiglia e del lavoro, il nostro sistema di protezione sociale è sulla graticola dei governi da almeno un ventennio. Non sono mancati i tentativi di correggerne difetti e inefficienze. Ma, messi in campo sull’onda dell’emergenza, hanno avuto un’efficacia limitata. Oggi si continuano a versare fiumi di inchiostro sulle sue distorsioni. Stenta però a farsi largo un progetto complessivo di cambiamento, ispirato a una chiara visione del futuro. Una difficoltà che chiama in causa anche il movimento sindacale. Ed è una difficoltà che viene da lontano, come si può arguire dal testo di Bruno Trentin qui pubblicato.
Si tratta della trascrizione del suo intervento conclusivo alla prima conferenza nazionale della Cgil e sulla riforma dello stato sociale (Roma, giugno 1995). Una conferenza da lui fortemente voluta, e alla cui impostazione aveva dedicato ogni energia come responsabile del-l’Ufficio del programma. La considerava, infatti, una tappa obbligata di quel percorso di ricerca che, avviato all’assemblea di Chianciano del 1989, doveva ridefinire le prospettive strategiche del «sindacato dei diritti». Lì ne erano state gettate le fondamenta. Ora occorreva completare la costruzione del suo edificio. Mancava ancora un muro maestro, e questo – appunto – era la riforma del welfare: una riforma che doveva ridimensionare drasticamente la sua annosa funzione risarcitoria, sostituendola con la logica della promozione.
La rivoluzione culturale proposta da Trentin attingeva in qualche mi-sura alle elaborazioni dei teorici dello sviluppo umano, quali Amartya Sen e Martha Nussbaum. Tali elaborazioni mettevano l’accento sull’offerta di beni e servizi reali, in grado di garantire un’esistenza dignitosa per tutti. A questa idea Trentin aggiungeva la vivida percezione degli effetti devastanti che il cedimento del vecchio modello assistenziale poteva avere per il sindacalismo confederale. La frantumazione del conflitto distributivo, cui esso dava luogo, era infatti suscettibile di mettere in discussione il suo stesso ruolo politico di rappresentanza generale dei salariati. Per questo occorreva riorganizzare lo schieramento del lavoro anche sul fronte della riforma del welfare, rimettendo al centro di un «patto di solidarietà tra diversi» (il patto lanciato a Chianciano) le persone, e non più le classi. Le persone con i loro specifici bisogni di tutela, sempre meno garantita dal principio assicurativo; le persone con i loro rischi disuguali, che andavano non solo in-dennizzati ma prevenuti con interventi puntuali nella scuola come nel-la formazione permanente, nel sostegno al reddito come in quello per l’invecchiamento attivo della popolazione.
Nella sua relazione introduttiva alla conferenza, Trentin aveva chiesto al sindacato – al suo sindacato – di iscrivere in questo orizzonte riformatore la lotta per la conquista di nuovi diritti di cittadinanza. Tale orizzonte doveva essere destinato a modificare il baricentro delle relazioni industriali, delle politiche del lavoro e della spesa sociale non solo dalle classi alle persone, ma dalla prestazione lavorativa in senso stretto alla vita intera. Da questa spinta potevano nascere forme di partecipazione non burocratizzate e non mediate dai grandi apparati pubblici, un rapporto positivo con il mondo dell’associazionismo e del volontariato, la riscoperta delle stesse radici mutualistiche del sindacato.
Questo appello di Trentin non sembrò suscitare una vasta eco nella platea romana. Dopo un dibattito sottotono e assai sbilanciato sul te-ma delle pensioni, la sua replica fu sferzante. E, con la pazienza e il coraggio che solo i grandi leader sindacali possiedono, ribadì caparbiamente tutte le ragioni per cui il «welfare delle opportunità» fosse una necessità storica per il movimento dei lavoratori e per la democrazia italiana. Sono ragioni che meritano di essere rilette, perché restano all’ordine del giorno dell’agenda nazionale. Se si guarda al tempo presente, non si può certo dire che Trentin fosse un predicatore saccente. Molte categorie deboli – anziani, giovani precari, operai, non solo delle piccole imprese – stanno voltando le spalle alle forze riformiste. Questi ceti hanno certamente espresso una domanda risoluta di sicurezza, ma anche una richiesta di legami identitari più saldi e di solidarietà sociali più inclusive. In assenza di altre risposte convincenti, hanno finito col trovare rappresentanza nel populismo berlusconiano e nel comunitarismo leghista. Il terremoto finanziario internazionale degli ultimi mesi, d’altro canto, ha segnalato non semplicemente la scissione tra capitale e lavoro, già consumata e evidente a tutti. In realtà, è saltata una peculiare alleanza tra economia di mercato e welfare, come ha osservato Ulrich Beck. Un’alleanza che ha sorretto sempre più debolmente il diritto, le istituzioni e la legittimità stessa delle élite europee. Se questo è vero, c’è addirittura un contratto sociale da riscrivere e un’autorità democratica da ristabilire, che si prendano cura sul serio degli esclusi e dei perdenti, nella lotteria della vita come nella competizione globale.
Ci sono diversi e attualissimi motivi, insomma, per cui vale la pena ritornare su questo testo di Trentin. La sua idea di welfare society, ovviamente, può essere discussa. Ha tuttavia il merito di non promettere la felicità a tutti. Vuole dare invece a ciascuno i mezzi (i diritti per poterli usare) che gli consentano di realizzare al meglio le proprie aspirazioni personali. È una specie di utopia laica, per così dire, che richiede proprio ciò che adesso manca: un progetto – insisto – che sappia tradurre in energia politica e morale l’esigenza di dare un senso all’avvenire. Un senso carico di speranze, e non di angosciose inquietudini. Trentin questo progetto lo aveva. I fatti lo hanno premiato solo parzialmente. E i fatti qualche volta hanno la testa molto dura. Ma non è detto che non si possa mai cambiare.
DAL WELFARE STATE ALLA WELFARE SOCIETY di Bruno Trentin
Mi permetto di considerare questa conferenza un po’ come un mes-saggio in una bottiglia lanciata nel mare del movimento sindacale e delle sue strutture, sperando che con il tempo, anche se il tempo pre-me, approdi sulle rive di un dibattito più impegnato e più unitario, capace di una visione complessiva che mi sembra oggi manchi in tutte le organizzazioni sindacali.
A questo scopo noi cercheremo, tra l’altro, di tradurre i lavori di questa conferenza, i lavori dei seminari che l’hanno preceduta, in un Libro bianco sulla riforma dello stato sociale, che tenteremo di presentare, come un contributo, al Congresso.
In altre sedi credo sarà necessario riflettere, come Cgil, sulle ragioni di un interesse e di un impegno così squilibrato delle nostre strutture, dei nostri gruppi dirigenti di fronte ad una iniziativa come questa.
Credo che lo sciopero dei trasporti, dei trasporti aerei in modo particolare, non spieghi tutto, neanche l’assenza della Federazione dei trasporti al nostro dibattito, anche perché ha avuto modo di occuparsi in questi giorni di temi, come quello delle pensioni, molto diversi dall’imbarbarimento corporativo del conflitto sociale al quale assistiamo nel settore dei trasporti aerei.
Formulo una prima ipotesi su questa partecipazione, certamente ca-rente, alla nostra conferenza da parte di tante strutture della Cgil: una difficoltà persistente del sindacato ad impadronirsi di una tematica di rilevanza centrale, com’è la riforma della stato sociale, valutandola nella sua interezza e nelle sue relazioni interne.
Siamo stati mossi in questa iniziativa da una volontà di difesa dello stato sociale – come ha fatto in modo brillante il professor Billia – e di quello che ha rappresentato anche nella vita della democrazia italiana in questi quaranta anni, di difesa, nella consapevolezza di una sua crisi che si è espressa anche nella funzione di surroga che ha dovuto assumere sempre più l’Inps, per esempio, rispetto alle lacune e alle latitanze di altri settori di intervento dello Stato nell’economia, nelle politiche dell’occupazione. Una funzione di surroga che ha dovuto assumersi il costo di profonde contraddizioni anche nel comportamento dello Stato nel suo insieme. Contraddizioni che, lo segnalo, diventano non soltanto di carattere finanziario, ma rischiano di diventare di carattere sociale e politico. Penso alla decisione, che dobbiamo difendere, di un superamento graduale delle pensioni di anzianità con il permanere di forme e pensionamenti che prescindono dall’anzianità di lavoro e che sono generalmente elargiti in base a criteri discrezionali per una minoranza di lavoratori.
Non credo che possa reggere una riforma del sistema pensionistico del tipo di quella nella quale ci siamo impegnati, come sindacato, con il permanere della ferita nella nozione di solidarietà inferta da istituti come quello del prepensionamento.
Volevamo anche avanzare delle proposte, in questa conferenza, per una riforma capace di difendere i valori essenziali di solidarietà che possono, alla fine del XX secolo, legittimare ancora il welfare, non solo in termini di distribuzione di redditi, ma sempre più in termini di redistribuzione di servizi, di servizi alle persone, di servizi alla collettività.
Infatti, il vero limite dell’accordo alle pensioni che, come ho detto nella relazione, ritengo costituisca l’unico approdo possibile di questa lunga vicenda, è ancora quello, o è soprattutto quello, di essere un intervento settoriale, rispetto ad una rete di interessi e di servizi che deve essere risanata nella sua interezza, per approdare ad un sistema stabile di tutela sociale fondata sulla promozione. Questo limite si riflette in un comportamento del sindacato che rischia con il tempo di diventare davvero esiziale: quello di essere vincolato ad un continuo gioco di rimessa di fronte agli interventi che di volta in volta i governi assumono quando le finanze pubbliche entrano in difficoltà. Oggi di fronte ad un intervento sul sistema pensionistico; domani di fronte a un intervento nel settore della sanità; dopodomani di fronte a nuove mi-sure sul mercato del lavoro. Se non diamo una svolta siamo condan-nati a giocare di rimessa di volta in volta di fronte a queste emergenze. Non parlo dell’istruzione perché in questo caso, come è stato ricordato, risultiamo ancora affetti da un’atonia totale e quindi, anche quando è rimesso in questione l’intervento dello Stato in questo settore, il sindacato ha dimostrato il più basso tasso di reattività.
In ogni caso, credo che dobbiamo considerare questa conferenza come un contributo e come una provocazione insieme, una prima tappa di ricerca che è stata incentrata su quattro opzioni fondamentali.
La prima è stata quella di assumere il welfare state nelle sue interrelazioni oggettive. Non si tratta di una questione oziosa di definizione, o di un tentativo di mutare le frontiere dell’intervento dello stato sociale a seconda delle preferenze o delle opzioni ideologiche di qualcuno. Fra previdenza, sanità, mercato del lavoro, istruzione e formazione si sono create con il tempo — non solo nelle politiche, ma soprattutto nei fatti — delle interrelazioni profonde, dei condizionamenti reciproci nella disponibilità delle risorse, negli effetti che hanno la loro gestione sulla vita delle persone, nel lavoro delle persone, sull’occupazione delle persone, sulla loro tutela complessiva. Ribadisco qui quello che ho detto nella relazione: la distinzione sacrosanta, dal punto di vista della trasparenza contabile fra previdenza e assistenza (un’assistenza che dovrebbe diventare sempre di più promozione, politica attiva, in modo particolare nel mercato del lavoro), diventa assolutamente fuorviante se si pensa di costruire su questa distinzione un’autosufficienza dei singoli settori di intervento dello stato sociale.
La seconda opzione partiva dalla volontà di verificare se alla radice della crisi dello stato sociale in tutti i paesi industrializzati non ci fosse la crisi del modello assicurativo che ne è stato il fondamento primo. Abbiamo cercato di evidenziare, infatti, che di fronte al principio dell’uguale ripartizione dei rischi sono subentrate nuove certezze per individui e gruppi sociali in ordine alle condizioni di lavoro, alle aspettative diverse di vita anche dopo la pensione; sono subentrate nuove certezze in termini di accesso all’istruzione, alla qualificazione ed alla salvaguardia delle condizioni di lavoro; nuove certezze in termini di probabilità di disoccupazione e di diritto alla pensione; nuove certezze in termini di capacità di difesa di fronte ai pericoli di malattie e di morte, anche qui in relazione a una divaricazione delle opportunità sul fronte dell’occupazione, dell’istruzione, della tutela previdenziale.
Questo pone il problema dell’esistenza di divaricazioni nuove tra le risorse disponibili nello stato sociale, così come sono state distribuite nel modello che si è affermato nel dopoguerra, e la soddisfazione di diritti universali non inventati giorno per giorno, che si rivelano impossibili da soddisfare. Da qui la necessità di una diversificazione dei servizi corrispondente alla diversificazione delle tutele delle politiche di promozione, per poter assicurare anche domani un’uguaglianza di opportunità di tutti i cittadini e dei lavoratori, in primo luogo nell’accesso allo stato sociale.
Terza opzione è che questa crisi del modello assicurativo, se trova un fondamento nella realtà e non soltanto nei conti, pone un problema di redistribuzione delle risorse in ordine a nuove priorità e in relazione alla possibilità di assicurare un governo complessivo del welfare in tutte le sue interrelazioni oggettive.
Si prospetta così, ed è la quarta opzione sulla quale abbiamo cercato di incentrare questo convegno, un passaggio certo difficile per la trasformazione dello stato sociale, ma anche una grande opportunità per il movimento sindacale: quella di proporre e di promuovere un rap-porto non solo passivo tra crescita economica equilibrata e stato so-ciale.
Non abbiamo soltanto tenuto in conto la necessità di collocare una ri-forma dello stato sociale in un’ipotesi di crescita economica, ma anche quella di una relazione tra stato sociale e crescita economica equilibrata che facesse assumere allo stesso un ruolo promozionale di grande rilevanza.
Dall’assistenza alla promozione, vuol dire anche ridisegnare uno stato sociale come strumento non solo di una politica di piena occupazione. Mi pare importante la sottolineatura che Ruffolo ha potuto dare a questa tematica nella sua relazione: lo stato sociale come uno strumento di una politica di piena occupazione, di qualificazione del lavoro, come risorsa strategica anche nella competizione che si fa sempre più di carattere mondiale.
In questo quadro si colloca un ruolo possibile del terzo settore, in un quadro di politica economica e di politica attiva del lavoro, di programmi straordinari di occupazione, di cui abbiamo formulato alcune ipotesi nella relazione. Ben consapevoli, come il professor Billia, che l’integrazione di un terzo settore in una welfare society di tipo nuovo non sarà un passaggio spontaneo. Perché se c’è una cosa che il mercato allo stato attuale si rivela incapace di promuovere con i suoi mezzi è proprio un settore inizialmente non-profit, che operi collateralmente alle istituzioni dello stato sociale.
Il dibattito che c’è stato in questi tre giorni ha messo utilmente in luce convergenze, ma anche divergenze legittime e anche, se mi si consen-te, resistenze e ritardi nella nostra riflessione e nelle nostre capacità propositive.
C’è stato un accordo, in linea di massima, o comunque una non con-futazione delle ipotesi che abbiamo portato sulla crisi del modello assicurativo; ma ci sono state forti reticenze, a mio parere, nel trarre le conseguenze di questa constatazione, per esempio in termini di finanziamento. Resistenze, in sostanza, ad intendere il valore, il vantaggio anche, ma il limite al tempo stesso, del sistema contributivo come forma di finanziamento di uno stato sociale inteso in questa sua complessità e interrelazione.
Mi permetto di ricordare, anche a Stefano Patriarca , che, con tutti i vantaggi apportati dall’attuale ipotesi di riforma, venti anni invece di quaranta anni di contributi — se questa è la tendenza che rischia di caratterizzare il destino di molte persone nei prossimi decenni, con un mercato del lavoro sempre più frammentato — sono due cose diverse. Anche se il sistema contributivo è migliore di quello retributivo, anche se non penalizza le retribuzioni più basse, ci sono sempre venti anni di differenza che rischiano di approdare, con il tempo, a delle pensioni di sopravvivenza.
Allo stesso modo, il superamento necessario del sistema delle pensio-ni di anzianità per il fatto che non hanno mai assunto la caratteristica di lavoro, la natura specifica delle prestazioni di lavoro, non solo tra pubblico e privato ma anche all’interno del settore privato, non cancella il fenomeno che lo stesso professor Billia ricordava: la diversità dei lavori. E non si può pensare di neutralizzare un fenomeno che opera già nei fatti: la politica darwiniana di selezione delle imprese a danno dei lavoratori più anziani, meno qualificati, occupati in mansioni usuranti. Quelli che, abbiano o non abbiano la pensione di anzianità, saranno espulsi dal mercato del lavoro o comunque dalle mansioni e dalle occupazioni che occupavano precedentemente.
Ecco perché, forse, sul finanziamento di una riforma dello stato sociale abbiamo incontrato le maggiori difficoltà. Noi avevamo fornito alcune indicazioni su un sistema di finanziamento fondato su tre pilastri fondamentali: le politiche di risparmio che si possono realizzare; il sistema contributivo che resta un pilastro insostituibile di finanziamento di uno stato sociale; l’importanza crescente di una politica di solidarietà generale coperta dalla fiscalità generale.
Questa è la condizione, a nostro avviso, per una redistribuzione delle risorse in ordine a priorità che sono mutate nel tempo e che nascono e che determinano una crisi certamente fra le provisions che attualmente sono distribuite e i diritti universali che noi dobbiamo tutelare.
Io non ho condiviso alcuni accenni che sono stati fatti nel dibattito. Mi riferisco a quella sorta di marxismo radicale, forse alla rovescia, il quale giunge alla conclusione che, quando non ci sono risorse, non ci sono neanche diritti. Io credo, con Ruffolo, che alcuni diritti universali sono le variabili indipendenti, rispetto alle quali vanno, semmai, operate redistribuzioni di risorse per garantire il loro rispetto. Certamente non la dinamica delle retribuzioni, ma il diritto al lavoro, il diritto ad aspettative di vita uguali, il diritto a condizioni di lavoro degne di una persona istruita, capace di produrre.
I diritti affermati nella civiltà di un popolo e nella sua Costituzione pongono continuamente, con le trasformazioni della società, un problema di redistribuzione delle risorse e, quindi, di redistribuzione della stessa pressione fiscale.
La questione, se volete, in termini molto grossolani, mi viene dalla lettura di uno dei lucidi che il professor Billia ci illustrava. Se nel 2010 il finanziamento del sistema, quello coperto dai fabbisogni di cassa dell’Inps (e sappiamo che è solo una parte dello stato sociale) implicherà un passaggio dal 16% al 29,9% delle entrate tributarie dello Stato, per garantire in termini di solidarietà generale la tenuta di cassa dell’Inps, io sarei interessato a sapere per quali strade si potrà conseguire questo obiettivo. Noi avevamo formulato delle ipotesi: quella sull’imposta sul valore aggiunto di impresa, quella sull’istruzione e quella su una contribuzione generale di solidarietà alla francese, nonché quella di una politica di imposte di scopo a livello locale, sorrette da nuove forme articolate di democrazia e di consultazione.
Devo dire con rammarico che su queste ipotesi, giuste o sbagliate che fossero, si è detto molto poco, pro o contro, ma soprattutto, e con-cludo davvero, ho avvertito nel corso di questo nostro dibattito, ricco di contributi anche di grandissimo rilievo, una grande fatica di ognuno di noi a ragionare in termini sistemici e a superare una visione segmentata dello stato sociale: una tendenza prevalente a identificare lo stato sociale con il sistema pensionistico, magari alla ricerca di una sua, a mio avviso impossibile, autosufficienza normativa e finanziaria. Soprattutto perché la promozione di cui parliamo vuol dire dare, forse, meno redditi e più servizi anche alle persone anziane.
Non c’è stata, quindi, una risposta corale a una delle proposte centrali che noi avevamo avanzato in questa conferenza: la priorità che deve assumere la riforma del sistema formativo in tutte le sue implicazioni, nel bilancio dello Stato, nelle politiche di finanziamento, nell’azione rivendicativa del sindacato.
Badate bene: di fronte a questi nostri ritardi rischiano di aver ragione le posizioni illuminate, ma forse semplicistiche, come quella del professor Prodi, quando giunge alla conclusione, di fronte allo stato dell’economia della società italiana, che bisogna tagliare le pensioni perché la priorità delle priorità è l’istruzione e la formazione. E io condivido con lui questo secondo giudizio.
Penso che si possano trovare, a condizione di avere una visione com-plessiva, delle strade forse meno brutali per garantire queste priorità. Questa difficoltà riflette ancora, come io penso, l’esistenza e la persistenza di un sistema tayloristico del lavoro, anche all’interno del sindacato. E cioè la permanenza di una separatezza di vecchi specialismi: chi si occupa di pensioni, chi si occupa di sanità, chi si occupa di mercato del lavoro, chi si occupa a tempo perso di promozione dei soggetti esclusi, chi si occupa di handicappati, chi si occupa dei problemi della scuola.
Penso che ci sia anche questo nelle nostre difficoltà e nei nostri limiti. Eppure un sindacato che aspiri ad essere soggetto politico deve poter superare, e non a parole, riunificandoli e non sommandoli, i diversi settori della sua politica rivendicativa. Riunificando in un progetto, in una strategia fondata non sulla somma degli obiettivi, ma su una loro ridefinizione qualitativa. Questo vuol dire passare dall’assistenza alla promozione, con l’adozione di nuove e rigorose priorità.
Su questo fronte penso che siamo ancora latitanti, e che fino a quan-do lo saremo rischiamo, malgrado noi, di subire una corporativizza-zione crescente dell’agire sociale. Io credo che si tratti di una grande questione congressuale anche per la Cgil, che ha bisogno non soltanto di un programma ben ordinato nei suoi vari capitoli, ma di un progetto di società che gli dia anima e unità. Questo vuol dire, se non è un gioco di parole, il passaggio dal welfare state alla welfare society.