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Franco Ferrarotti

"CIASCUNO DI NOI HA BISOGNO DELL'ALTRO". SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA A FRANCO FERRAROTTI

Il 22 ottobre 2024, poche settimane prima che il suo cuore cedesse, abbiamo incontrato il professor Franco Ferrarotti, che non esitiamo a definire un gigante del pensiero contemporaneo. Abbiamo registrato una lunga intervista, la cui prima parte è stata pubblicata sul nostro sito. In questa seconda parte abbiamo selezionato i passaggi nei quali Franco Ferrarotti insiste nel riflettere sui processi sociali determinanti dell’età contemporanea, tra filosofia, sociologia, economia.

Gli chiedemmo come vedesse la trasformazione della società italiana ed europea nei due grandi passaggi dell’epoca contemporanea. Ed egli iniziò così: “la società italiana non è più ciò che forse non è mai stata, un'isola, non è mai un'isola. Il grande fatto di oggi è che il processo di industrializzazione è più un processo sociale, totale, globale, per cui le vecchie categorie, diciamo rispettabili, storicamente dell'Ottocento e anche prima del Settecento, per esempio lo Stato-Nazione ormai non funzionano più. L'origine dello Stato-Nazione si deve alla pace di Westfalia del 1648, che pose fine alle guerre di religione che avevano insanguinato l'Europa. Si tratta cioè di un principio fondamentale, la religione cede il passo al laicismo della legge, a partire dal giusnaturalismo. Il principio è molto semplice, cuius regio eius religio, e poi naturalmente l'assolutismo regio del Settecento, fino all'Ottocento, da cui nasce lo Stato moderno, definisce l'impero della legge. Ora tutto questo naturalmente è finito. In base a cosa? In base alla globalizzazione, dovuta a questa tendenza sotterranea potente e isomorfica dell’industrializzazione con i suoi fondamentali principi, vale a dire quelli dell'innovazione tecnologica come principio guida. Quindi noi oggi quando parliamo dell'Italia, in realtà parliamo dell'Europa, in realtà parliamo del pianeta, che si vede suddiviso fra autocrazie e democrazie e una incredibile teocrazia che è l'Iran. Quindi, noi siamo dominati da un principio che io non esito a definire dell'innovazione tecnologica, un principio guida che tuttavia non guida da nessuna parte”.

Perché, e come la scienza sociologica spiega questo fenomeno?

“Ma perché la macchina, vale a dire la scienza, la scienza applicata e quindi la tecnica, la macchina ripete sé stessa e non ha interesse per il passato, funziona nel presente, non ha elementi storici, e non conoscendo il passato, non comprendendolo, non ha elementi per progettare il futuro. Noi siamo quindi in una società oggi globale, planetaria dal punto di vista tecnico, ma estremamente arretrata dal punto di vista politologico. E lei mi ha fatto una domanda precisa e adesso finalmente arrivo alla risposta: i sociologi purtroppo fanno parte di questa società, quindi, condividono il principio fondamentale dei rapporti sociali di tutti i tipi, da quelli familiari anche intimi, eccetera, a quelli sociali e politici. Questi rapporti sociali sono concepiti in termini di calcolabilità, cioè di utilitarismo. Ora il problema è che quando un'economia di mercato è così forte, finisce per tracimare e trasformare la stessa società in società di mercato. Ma ora non è più una società di mercato, è un conglomerato hobbesiano, direi, nel quale si discute contro tutti, se non addirittura dell'homo homini lupus, dell'uomo lupo per l'altro uomo. Questa è la nostra situazione di oggi”.

Il professor Ferrarotti delineava una sorta di storia del pensiero moderno, attraverso il quale leggere la storia del mondo contemporaneo. Un filo in realtà filosofico da Hobbes ad Heidegger, come fu evidenziato durante l’intervista

“In realtà”, replicò, “io ragiono da filosofo, come è ovvio. Diciamo, però, che lei ha toccato e ha inquadrato il tema enorme. In realtà, per Hobbes e poi per Carl Schmitt c'è una cessione di sovranità, per cui quel valore di scambio che è dominante rispetto al valore d'uso diventa anche la costruzione del nemico. Poi c'è l'altro elemento. Tutta la filosofia del secondo Novecento segue Heidegger. In Italia, Emanuele Severino ne è stato l’interprete più prestigioso. Il tema è quello del dominio della tecnica. Heidegger ha visto con chiarezza nella conferenza di Monaco di Baviera del novembre 1953, l'essenza della tecnica. Cosa ha visto? Ha visto un momento della macchina come eterno ritorno dell'identico. La macchina funziona e l'uomo pensa. Io arrivo a dire due cose. Prima, grande rispetto per il mercato. Prima ho parlato di una società di mercato che non è più una società. Però il mercato, come foro di negoziazione, di scambio, di compravendita delle merci, di servizi, è del tutto legittimo. Ma non è un totem, non è che possiamo chiedere al mercato la definizione del sociale. Secondo, certamente la tecnica è un valore, ma è un limite, al contrario di ciò che avviene oggi anche da parte dei sociologi che accettano la loro degradazione a tecnici o ingegneri del sociale. Questa società, questa tecnica, ma anche Internet, macchina meravigliosa, nata per scopi militari, impongono un pensiero teorico, una valutazione sociale. In una manciata di secondi la macchina può risolvere problemi che richiederebbero tempo, ma si tratta anche di una macchina stupida, perché non sa indugiare, non ha dubbi, non sa dubitare. Ma qui emerge un tema enorme, rilevante, di tutto il Novecento. Il rapporto tra scienza e democrazia. Chi controlla?

La risposta a questo interrogativo evoca le ombre venerande in Italia di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori. Questi politologi o political scientists o specialisti hanno accettato della democrazia una concezione puramente formale. Ne hanno accettato l'impianto liberale. Perciò, è democrazia quando si vota. No! La democrazia non è nata soltanto per una riforma delle leggi elettorali, la democrazia è nata come utopia pragmatica, seppur contraddittoria, è nata, con lotte di lacrime e sangue, per affermare eguaglianza e giustizia sociale”.

Avevamo toccato un nervo ancora scoperto nella memoria di Franco Ferrarotti, sia pure a distanza di decenni. Un nervo che prendeva spunto dal ruolo degli intellettuali organici nel loro rapporto con la politica, un ruolo che nel Novecento era fonte di dibattiti intensi, dentro e fuori i partiti, dentro e fuori le accademie universitarie, ma che oggi pare caduto in disuso e nel dimenticatoio.

“Nel corso di una lunga polemica con Roderigo di Castiglia, pseudonimo di Palmiro Togliatti, accusai alcuni intellettuali di vera e propria tartuferia, di giocare con le parole, di costruire sciarade e inutili definizioni, mentre invocavo la libertà di pensiero degli intellettuali, sia quelli militanti che quelli che se ne stavano chiusi nelle loro torri d’avorio accademiche. Occorreva un pensiero, o meglio la costruzione di una teoria filosofica che desse modo di spiegarci la realtà del secondo Novecento”.

A questo punto Ferrarotti ci raccontò la sua idea di politica. 

“La scienza politica in Italia nasce da una tartuferia del grande Norberto Bobbio, filosofo e politico, ma non certo figura dell'intellettuale comunista. La domanda è: perché negli ultimi tempi la tradizione torinese di Bobbio resiste ancora e invece c'è l'oblio dei grandi intellettuali comunisti? Dovremmo recuperare lo sforzo di quei pensatori, che rileggevano Marx. Sono convinto, che quella di Bobbio era una tradizione, non voglio dire di carta pesta, ma non era una tradizione vera. Per esempio, fra l'antifascismo di un Piero Gobetti e quello di un Bobbio c'è un’enorme differenza. Emerge anche ora il grande tema della giustizia e dell'uguaglianza greca. Certo, ma la giustizia e la libertà sono nella Costituzione e senza l’apporto sostanziale degli intellettuali comunisti, legati profondamente al lavoro e ai territori, ci restavano dei movimenti puramente intellettuali, senza una radice profonda nella realtà”. Parlava del passato, ma è come se ci stesse guidando in una sorta di critica del presente. Lei crede che ci stiamo avvicinando a qualche forma molto contemporanea di totalitarismo?

“Il totalitarismo è soprattutto legato al dominio, e qui è indubbiamente la parte, mi duole doverlo dire, positiva della vecchia analisi heideggeriana.

Il totalitarismo è legato soprattutto all’accettazione del giudizio o comunque del risultato scientifico raggiunto in un dato momento come dato finale, da cui poi si può continuare. Ignorando cosa? Ignorando che il movimento sociale, l'evoluzione sociale è un movimento, è un fatto storico, evolutivo, dialettico e non cumulativo scientifico. Il processo scientifico, il progresso anche scientifico avviene attraverso ristagni superati ogni volta attraverso una sovrapposizione, mentre il movimento, l'evoluzione dialettica della società avviene attraverso il rapporto conflittuale o collaborativo dei grandi gruppi sociali che si sentono portatori di un certo tipo di società. Cosa significa questo? Qui arriviamo al cuore del problema di oggi. Significa che se in fondo il movimento sociale è dialettico presuppone una revisione del concetto stesso di dialettico.

Ciò che è dialettico per Aristotele e poi per Tommaso d'Aquino e la Scolastica medievale non è altro che Ars disserendi, la capacità del discorso, di parlare sensatamente. La dialettica diventa storia in Hegel. La dialettica hegeliana arriva a dire no, nulla esiste. Tutto diviene. Esiste solo il pensare nel suo farsi continuo. Ma qual è lo spirito, lo Zeitgeist, del nostro tempo? Siamo al terzo punto. Il terzo punto è la dialettica non più come Ars disserendi, non come pensiero che si fa azione e azione che si fa pensiero, ma una dialettica della relazione che riconosce che il sé ha bisogno dell'altro da sé per accrescersi. Cioè una dialettica relazionale. Noi non abbiamo ancora accettato l'altro. L'altro resta un pericolo, e non lo accetteremo. Ecco perché ci vuole un cambiamento, un rovesciamento letterale addirittura, un capovolgimento molto più radicale di quello che Marx stesso pensava di aver fatto con Hegel, rimettendolo sui piedi mentre prima camminava sulla testa.

Ce lo confermano gli stessi femminicidi oggi, ancora oggi. Noi non abbiamo imparato ad amare senza possedere. La dialettica dell'altro è ancora il riconoscimento di un pericolo, ma l'altro è essenziale. Senza l'altro non c'è la società e noi siamo fermi. Siamo fermi perché l'altro fa ancora paura e occorre elaborare una dialettica relazionale in cui sia possibile amare ma rispettando l'autonomia della persona amata, senza oggettualizzarla”.

Detto ciò, Ferrarotti tornò alla missione del sindacato, e in particolare della Cgil. “Occorre oggi capire, ma questo è un problema enorme che vi sta davanti proprio come sindacato, che identità e alterità sono concetti e pratiche di vita, concetti correlati. La filosofia oggi parla di questo, ma non riesce, non avendo la base esistenziale concreta con cui fare riferimento, non riesce a darsi nutrimento. I filosofi elaborano una nuova scolastica e il Marxismo stesso cos'è diventato? Adesso diciamo la verità tra noi. Solo un'esercitazione accademica? Magari. Il marxismo è una moda, appunto, è un momento. Marx stesso, non dimentichiamolo, non ha mai fatto ricerca sul campo, perché quello che voglio dire è che se uno rovescia la piramide e parte dalla base esistenziale, deve andare alla ricerca sul campo. Le scienze ermeneutiche, prendiamo storia e sociologia, e le scienze sociologiche si distinguono attraverso l'oggetto. Qual è l'oggetto? Si dà il caso però, che l'oggetto della sociologia non sia un oggetto, ma un soggetto, è una persona. Questa è la tremenda novità. E qui c'è indubbiamente un grande lavoro da fare, che io ritengo non possa uscire dalle università, perché l'università è utilizzata solo per ottenere una cattedra, per ottenere un posto accademico. Le ricerche di cui abbiamo bisogno rovesciano questa prospettiva. Occorre ripensare, rivalutare, riconsiderare la conoscenza ordinaria della doxa contro l'episteme, ovvero la doxa viene ad alimentare il sistema.  Quindi oggi c'è più politica, più filosofia, più vita vera fuori dagli schemi, diciamo, burocratici della società in cui viviamo, del tipo di società. E questa vita va raccontata. Siamo dinanzi a una umanità che sta regredendo, che è tecnicamente molto progredita ma umanamente imbarbarita. Sta regredendo dall'animale umano che ha bisogno di un perché all'animale che fa per fare, cioè che semplicemente vuole sperimentare, spinto da un grumo misterioso di istinti, di presenza, di atto di presenza. Lo ha fatto per fare, senza significato, senza perché. In realtà la domanda è perché io esisto. Interrogativo tremendo. E questo va molto al di là del discorso generale. E di nuovo indica, si segnala la modernità, anzi la post-modernità di un uomo come Giuseppe di Vittorio. Va al di là, perché non si tratta più di parlare solo di un capitalismo illuminato, ma delle forme di vita subalterne e strumentali”.