Franco Ferrarotti, gigante del pensiero sociologico, ci racconta Giuseppe Di Vittorio
Lo scorso 13 novembre si è spento a Roma, all’età di 98 anni, il professor Franco Ferrarotti. Alla famiglia giunga il cordoglio dell’intera Fondazione Giuseppe Di Vittorio e della Cgil.
Vogliamo ricordarlo con l’intervista che ci concesse qualche giorno prima dell’incidente che lo ha portato alla fine della sua vita di studioso insigne, di intellettuale impegnato nella battaglia per la democrazia, per i diritti di lavoratrici e lavoratori, per la libertà dai condizionamenti del potere.
Quando ci ricevette volle subito dirci che aveva deciso di non concedere più interviste ma quando seppe che eravamo della Fondazione Di Vittorio non poté rifiutare, per la stima che serbava per il sindacalista. E così, dall’incontro con Giuseppe Di Vittorio, diede inizio al suo racconto, una vera e propria lettura del Novecento e del XXI secolo, inedita e originale, da parte di un gigante del pensiero contemporaneo, verso il quale va tutta la nostra gratitudine. Oggi, il dolore per questa perdita si accompagna alla consapevolezza di aver raccolto una sorta di testamento intellettuale, culturale, di Franco Ferrarotti, che qui vogliamo condividere con i nostri lettori.
Il testo che segue è la prima parte di una lunga intervista.
“Cominciava la guerra fredda”, ci narrava il professor Ferrarotti, “io ero a Genova. Ascolto e vedo quest'uomo con tutti i tratti ancora contadini, del bracciante, alto però, che lancia un piano del lavoro che va al di fuori del sindacato. Era Giuseppe Di Vittorio e questo era il punto. Io mi trovo di colpo di fronte a ciò che cercavo, naturalmente quel terreno politico, quella base territoriale, quella esperienza esistenziale da cui nasce, se ha da nascere, se può nascere, il pensiero puro, rovesciando la tradizione elitaria, platonica, che ancora oggi contraddistingue tutta la tradizione filosofica europea occidentale”, Qui la voce del professor Ferrarotti si fa più intensa, più commossa, come se stesse cercando nella memoria quei segni esistenziali e politici che, all’inizio del suo percorso di studioso, lo avrebbero portato a scegliere una linea intellettuale precisa, quell’attenzione alla condizione umana concreta che solo dal lavoro può provenire. “Io trovo un sindacalista che prende la parola agli inizi della guerra fredda”, prosegue, “e mi sorprende, non solo come intellettuale ma come cittadino. Giuseppe Di Vittorio parla di un piano del lavoro, che addirittura, dice, è per l'Italia ma non è solo per l'Italia, è per l'Europa, per il mondo. Questa visione è incredibile. Mi chiedo: ma chi è quest’uomo? È quel Giuseppe Di Vittorio che guida da antifascista, partigiano, bracciante autodidatta, la Cgil. Ma chi è davvero e soprattutto perché mi sorprende? Così ho voluto incontrarlo. Ci siamo parlati, gli ho detto: lei sa che non ha parlato da sindacalista? E mi presentai come dipendente della Olivetti di Ivrea fondata da Adriano. E molto divertito, Di Vittorio usò un’iperbole che ancora oggi mi torna alla mente come ciò che avrebbe segnato tutta la mia vita di studioso. Su, mi fa Di Vittorio, non vorrai mica pensare che io venda delle idee a un industriale illuminato che ha capito che il capitalismo per essere salvato va superato e diventare anticapitalista? Era ciò che cercavo, la risposta alla domanda che mi ha sempre assillato in tutto il corso dei miei studi e delle mie analisi. La trovai nelle parole, nelle opere, nelle idee politiche di Giuseppe Di Vittorio”.
A questo punto, il professor Ferrarotti ci parlò delle difficoltà incontrate in quegli anni quando avanzò le idee e le analisi originali che diedero vita alla sociologia italiana. E quando Ferrarotti descrisse le condizioni materiali dell’esistenza concreta di chi in fabbrica ci lavora, trovò proprio in Di Vittorio un alleato inatteso. “Sulle questioni delle condizioni di lavoro nella industria postbellica” prosegue il racconto del professore, “Di Vittorio dice che Ferrarotti ha ragione, sulla comunità di fabbrica ha ragione, perché quando ci accusano di massimalismo sbagliano. Noi della Cgil non siamo stati mai massimalisti, ma siamo stati, e Di Vittorio usa un termine veramente pregnante, lo ricordo molto bene in quella conversazione, siamo stati schematici, quindi non massimalisti. Cosa voleva dire schematismo? L’interpretazione di Di Vittorio era la seguente: senza volerlo abbiamo accettato la concezione subordinante di Lenin, del sindacato come cinghia di trasmissione della politica, o meglio di qualche partito politico”. Nelle parole di Ferrarotti, Di Vittorio rivendicava, schematizzandolo, l’autonomia del sindacato contro il carattere massimalista organizzato leninisticamente. Il ricordo di Ferrarotti ci era apparso talmente nitido quasi fosse presente là con noi il segretario generale della Cgil. E capimmo subito quanto fosse attuale quella considerazione del rapporto tra partito politico e organizzazione sindacale. “Il sindacato concepito come organizzazione”, proseguì il grande sociologo citando Di Vittorio, “come strumento organizzato e cosciente della classe operaria, ma in una funzione subalterna al partito, una funzione quasi di propaganda. Qui emergeva il tema politico più autentico nel racconto di Di Vittorio, ovvero il rapporto del sindacato con le istituzioni democratiche e repubblicane. Perché tenersi fuori dal Parlamento? Per fare che cosa? Questo è l’interrogativo interessante che ancora oggi assilla il senso del sindacato contemporaneo”. Il commento di Ferrarotti era che Di Vittorio aveva ragione e le sue parole attualissime andrebbero oggi più che mai rilanciate, “perché dobbiamo tornare dentro la fabbrica, dobbiamo far tornare il lavoro protagonista dei cambiamenti epocali”.
E di nuovo Ferrarotti ribadì la sua stima per il segretario generale della Cgil. “Io ho per Giuseppe Di Vittorio, l'ex bracciante di Cerignola, che non ha mai cessato di essere un bracciante legato alla terra, una grande ammirazione che riservo a poche altre persone e certamente che non concedo facilmente ai rappresentanti ufficiali dell'alta cultura. Non c'è una cultura alta e una cultura bassa, c'è questa capacità di legare l'esperienza esistenziale di base di una, di più persone, di tutto un movimento sociale a un ideale a cui aspirare. Questo fu Di Vittorio che conobbi nella mia giovinezza. Si tratta di una necessaria riconsiderazione della conoscenza, o meglio della rivalutazione della conoscenza ordinaria, dell'esperienza di base che ogni sindacalista alla Di Vittorio pratica nella sua attività. Si deve tornare dentro la vita. E quando si recide il legame tra vita e attività sindacale può nascere quel pericolo che abbiamo vissuto agli albori del fascismo. Sì, questa è la conseguenza inevitabile, nel momento in cui tu tagli, recidi il cordone ombelicale tra i gruppi dirigenti del sindacato e le camere del lavoro, e l’esperienza sindacale dei territori dai quali Di Vittorio proveniva: l'ordine nuovo, la subalternità sociale al totalitarismo”. Su quest’ultimo tema, ovvero del pericolo sempre risorgente del totalitarismo Ferrarotti ha espresso tutta la sua preoccupazione.
“Il totalitarismo”, ci disse il sociologo, “è legato soprattutto all’accettazione del giudizio o comunque del risultato scientifico raggiunto in un dato momento come dato finale, ignorando qualcosa che è socialmente decisivo. Ignorando cioè che il movimento sociale, l'evoluzione sociale è un fatto storico, dialettico e non cumulativo scientifico. Il processo scientifico, il progresso anche scientifico avviene attraverso ristagni superati ogni volta attraverso una sovrapposizione, mentre il movimento, l'evoluzione dialettica della società avviene attraverso il rapporto conflittuale e insieme collaborativo dei grandi gruppi sociali che si sentono portatori di un certo tipo di società. Cosa significa questo? Qui arriviamo al cuore del problema di oggi. Significa che in fondo il movimento sociale è dialettico e non statico. Presuppone una revisione del concetto stesso di dialettica. Di Vittorio lo capiva, perché mai oggi non si riesce a capirlo?”. Dinanzi a questo interrogativo fondamentale la voce del professor Ferrarotti tradì un’emozione, come se l’umanità contemporanea avesse smarrito ciò che lui e Di Vittorio avevano scoperto uscendo dalla tragedia del secondo conflitto mondiale. E con qualche amarezza, Ferrarotti concluse questa fase dell’intervista con queste considerazioni. “Di Vittorio aveva già assunto nella sua esperienza sindacale la dialettica, ma non più come Ars disserendi, non come pensiero che si fa azione e azione che si fa pensiero, ma una dialettica della relazione che riconosce che il sé ha bisogno dell'altro da sé per accrescersi. Cioè una dialettica relazionale. E noi oggi non abbiamo ancora accettato l'altro. L'altro resta... ma la dialettica dell'altro è ancora un pericolo, ma l'altro è essenziale. Senza l'altro non c'è la società e noi restiamo fermi. Siamo fermi perché l'altro fa ancora paura. Per questo occorre elaborare una dialettica relazionale in cui sia possibile amare, rispettando l'autonomia della persona amata senza oggettualizzare l'altro”.